Frederick Douglass, l’uomo nero più influente nell’America del 19° secolo, scrisse 1.200 pagine di autobiografia, una delle più impressionanti performance di memorie nella storia della nazione. I tre testi comprendevano Narrative of the Life of Frederick Douglass, An American Slave (pubblicato nel 1845); il suo capolavoro di lunga durata My Bondage and My Freedom, (1855); e infine, The Life and Times of Frederick Douglass (1881, rivisto nel 1892). Durante la sua vita, essi lo lanciarono alla ribalta nazionale; da allora, sono diventati testi essenziali della storia degli Stati Uniti.

In essi, Douglass racconta la sua straordinaria storia personale – lo schiavo che ha sopportato e assistito a indicibili atti di brutalità, poi ha audacemente voluto la propria libertà. Descrive il giovane schiavo che padroneggiava la lingua del padrone, e che vedeva il nucleo del significato della schiavitù, sia per gli individui che per la nazione. E poi coglie i molteplici significati della libertà – come idea e realtà, della mente e del corpo – come nessun altro ha mai fatto in America.

Ma come in molte autobiografie, c’è anche molto che Douglass trattiene, dettagli che non si adattano alla sua narrazione attentamente costruita. Dice poco, per esempio, delle sue complesse relazioni familiari – incluso il suo secondo matrimonio con una donna bianca – o delle sue importanti amiche. Né rivela mai veramente i suoi veri sentimenti sulla sua improbabile odissea da schiavo fuggitivo e outsider radicale, un uomo di colore che ha guadagnato fama per aver eloquentemente strombazzato le verità più dure della nazione, a un insider politico accolto calorosamente da Abraham Lincoln alla Casa Bianca.

Da schiavo orfano a coscienza di una nazione

Douglass nacque Frederick Augustus Washington Bailey, nella fattoria Holme Hill, nella contea di Talbot, Maryland, nel febbraio 1818. Era figlio di Harriet Bailey, che vide per l’ultima volta nel 1824, all’età di sei anni. Douglass non conobbe mai l’identità precisa di suo padre, anche se alcune prove indicano che fu il suo primo proprietario, Aaron Anthony, o il suo secondo proprietario, Thomas Auld, al quale fu lasciato in eredità alla morte di Anthony. Douglass era, quindi, nel senso più pieno del termine, un orfano alla ricerca di figure paterne e materne e di una parvenza di “casa” sicura. Visse 20 anni come schiavo e quasi nove anni come schiavo fuggitivo soggetto a ricattura. Dagli anni 1840 alla sua morte nel 1895, raggiunse la fama internazionale come abolizionista, riformatore, editore, oratore di statura quasi ineguagliabile e autore. Le tre autobiografie, insieme ai suoi infiniti tour di conferenze, costituirono la base della sua fama.

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Come uomo pubblico, iniziò la sua carriera abolizionista due decenni prima che l’America si dividesse e combattesse una guerra civile sulla schiavitù. Ha vissuto per vedere l’emancipazione dei neri, per lavorare attivamente per il suffragio femminile molto prima che fosse raggiunto, per realizzare i trionfi e le tragedie dei diritti civili della Ricostruzione. Come figura pubblica, ricoprendo cariche federali, fu testimone dell’espansione economica e internazionale dell’America nella Gilded Age. Visse fino alla vigilia dell’era di Jim Crow, morendo nel 1895, quando l’America crollò nella ritirata dalle stesse vittorie e rivoluzioni nelle relazioni razziali che aveva aiutato a vincere. Aveva visto e giocato un ruolo fondamentale nella seconda fondazione dell’America dall’apocalisse della Guerra Civile, e si considerava un fondatore della Seconda Repubblica Americana.

Passeggiando sulle rive crudeli della giovinezza di Douglass

Nel 1981, quando ero uno studente laureato in difficoltà e stavo lanciando una tesi non ancora formata su Douglass, ho avuto la fortuna di incontrare il defunto Dickson Preston, giornalista, storico e residente della Eastern Shore del Maryland, dove Douglass era cresciuto. Preston aveva appena pubblicato Young Frederick Douglass: The Maryland Years, e mi portò a Easton, Maryland, dove mi condusse in uno straordinario viaggio lungo le strade secondarie della Eastern Shore, un paesaggio che lo stesso Douglass aveva descritto, in parte, come avente un “aspetto logoro, sabbioso, desertico… un distretto monotono, piatto e poco vivace… delimitato dal fiume Choptank, tra i più pigri e fangosi dei corsi d’acqua”.

Dick mi portò all’ansa del fiume Tuckahoe, il sito della capanna della nonna di Douglass, Betsy Bailey, dove Frederick Bailey nacque e fu allevato fino all’età di sei anni. Ricordo ancora la passeggiata lungo il bordo di un campo di mais fino al fiume, e la sensazione di quanto possa essere commovente un luogo così semplice e rustico quando possiamo conoscere e sentire la sua storia. Ho visto la casa Auld a St. Michaels, la casa di uno dei proprietari di Douglass. Dick ha tracciato il percorso che la madre di Douglass, Harriet, fece nei suoi pochi viaggi per andare a trovare il figlio alla piantagione Wye, quella che Douglass avrebbe chiamato la “fattoria della Grande Casa” nei racconti. Alla piantagione Wye, che c’è ancora oggi, ho visto la vecchia cucina dove il piccolo Frederick aveva vissuto e assistito al selvaggio pestaggio di sua zia Hester.

Ad un certo punto Dick chiese: vuoi vedere la fattoria di Covey? All’età di 16-17 anni, Douglass è stato assunto da un supervisore-contadino che disciplinava gli schiavi indisciplinati. Douglass ha immortalato le sue selvagge percosse per mano di Covey, e soprattutto la sua resistenza in una lotta con il feroce padrone degli schiavi. Ricordo di essere sceso dall’auto di Dick, di aver scavalcato un recinto e di aver camminato su un crinale, mentre Dick diceva “girati e guarda”. Ed eccola lì, la baia di Chesapeake in un glorioso giorno d’estate, piena di velieri bianchi – la stessa vista che contribuì ad infiammare il sogno di libertà di Douglass.

Per uno schiavo sedicenne solo, avvilito, brutalizzato ma alfabetizzato, che aveva visto la città di Baltimora e letto di un mondo ancora più vasto e meraviglioso,ovey incarnava il “sistema” che ora imprigionava Fred Bailey (come veniva chiamato allora Douglass) in un angolo desolato della Eastern Shore, una terra selvaggia di violenza invisibile e indicibile da cui forse non sarebbe mai tornato. A metà estate, in questo inferno quotidiano, Covey raggiunse quello che Douglass affermava essere il suo motivo: “Ero rotto nel corpo, nell’anima e nello spirito. La mia naturale elasticità fu schiacciata, il mio intelletto languì, la disposizione a leggere se ne andò… ecco un uomo trasformato in un bruto”

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Frederick Douglass, circa 1850.

J. R. Eyerman/The LIFE Picture Collection/Getty Images

Sognando la libertà

La domenica Frederick aveva il suo unico tempo libero. Solo, senza nessuno con cui confidarsi, ci dice che si sdraiava sotto un albero da ombra e passava molte ore in “una specie di stupore bestiale, tra il sonno e la veglia”. A volte passeggiava verso la baia di Chesapeake, a poca distanza dalla fattoria di Covey, dove si concedeva un’occasionale esplosione di immaginazione, un sogno ad occhi aperti che dieci anni dopo avrebbe catturato in una bellissima e ossessionante metafora della libertà. Seduto in una piccola stanza ad una scrivania di Lynn, Massachusetts, nell’inverno del 1844-45, mentre preparava la sua prima autobiografia, Douglass guardò indietro nella sua memoria e scrisse un passaggio per i posteri.

“La nostra casa si trovava a poche canne dalla baia di Chesapeake”, ricordava, “il cui ampio seno era sempre bianco di vele provenienti da ogni parte del globo abitabile”. Douglass ha poi catturato la schiavitù e la libertà con una maestria senza pari nel genere dei racconti sugli schiavi:

Quei bei vascelli, rivestiti del bianco più puro, così deliziosi agli occhi dei liberi, erano per me tanti fantasmi avvolti, per terrorizzarmi e tormentarmi con i pensieri della mia miserabile condizione. Spesso, nella profonda quiete di un sabato d’estate, mi trovavo da solo sulle alte rive di quella nobile baia e tracciavo, con il cuore rattristato e gli occhi pieni di lacrime, l’innumerevole numero di vele che si muovevano verso il potente oceano. La vista di queste vele mi colpiva sempre con forza. I miei pensieri mi costringevano a parlare; e lì, senza altro pubblico che l’Onnipotente, versavo il lamento della mia anima… con un’apostrofe alla moltitudine di navi in movimento.

Poi, forse guardando attraverso la finestra invernale del suo ufficio di Lynn, Douglass si sposta e parla direttamente alle navi, cercando di rientrare nella voce di un adolescente:

Voi siete sciolti dagli ormeggi e siete liberi; io sono stretto nelle mie catene e sono uno schiavo! Tu ti muovi allegramente davanti alla dolce burrasca, e io tristemente davanti alla frusta sanguinante! Voi siete gli angeli dalle ali rapide della libertà, che volano per il mondo; io sono confinato in bande di ferro! Oh, se fossi libero! Oh, se fossi su uno dei vostri ponti galanti e sotto la vostra ala protettrice! Ahimè, tra me e voi, rotolano le acque torbide. Vai avanti, vai avanti. Oh, se potessi andare anch’io! Se potessi volare! Oh, perché sono nato uomo, di cui fare un bruto! La nave felice se n’è andata; si nasconde nella penombra. Sono rimasto nell’inferno più caldo della schiavitù senza fine!

In questo poema in prosa, Douglass scrisse una preghiera di liberazione simile a un salmo nella sua Narrativa, rendendo nella musica delle parole il significato del potenziale della schiavitù di distruggere lo spirito umano. Prima di concludere questa indimenticabile meditazione, come se stesse rinforzando il suo viso e il suo corpo ad un vento improvviso al largo della baia, dichiarò che un giorno avrebbe “preso il largo” e avrebbe coraggiosamente guidato “una rotta verso nord-est”. Un giorno avrebbe davvero gettato le sue lacrime su quel mare, viaggiando avanti e indietro da Baltimora. E nel decennio prima della guerra civile, come oggi, i suoi lettori potevano – e possono ancora – stare con Douglass nella notte oscura della sua anima e sentire il più profondo degli aneliti umani nelle loro stesse anime.

Tutta quell’esperienza con Preston mi ha fatto entrare nei mondi misteriosi e reali della gioventù schiavista di Douglass, all’interno di alcuni dei luoghi e delle scene delle tre famose autobiografie. E mentre fino a quel momento non avevo preso molto sul serio quei testi (stavo allora immaginando un lavoro su Douglass come pensatore), Preston mi lasciò con questo consiglio: “Qualsiasi fonte lei usi, torni indietro e legga quelle autobiografie: Douglass si rivela davvero lì”.

Beh, sì e no.

Illustrazioni che rappresentano la vita di Frederick Douglass da schiavista ad abolizionista.

Foto12/UIG/Getty Images

Le cose che Douglass non ha rivelato

I tre racconti sono infinitamente ricchi come fonti della vita pubblica di Douglass e della sua eroica ascesa verso la libertà, l’attivismo e la fama. Ma lasciano molto non detto, consapevolmente o inconsapevolmente nascosto ai suoi lettori e a noi biografi. Douglass ci ha invitato nella sua vita più e più volte; ma sembra scivolare fuori dalla stanza proprio quando vogliamo spingerlo a elaborare le informazioni sulle sue mogli (la prima nera, la seconda bianca), i suoi cinque figli e la sua complessa e travagliata famiglia estesa. Tace sulla sua probabile amante tedesca, Ottilie Assing, di forse due decenni e sulla sua cruciale amicizia con Julia Griffiths, una donna inglese che lo aiutò a sopravvivere professionalmente ed emotivamente nei primi anni 1850. Tiene vicino al gilet le sue molte rivalità di leadership con altri uomini di colore e cosa pensava veramente di William Lloyd Garrison o Abraham Lincoln. E lascia i lettori a chiedersi come ci si sentisse davvero nella notte dell’emancipazione del 1863, insieme ai suoi pensieri e sentimenti su uno qualsiasi delle dozzine di incroci di una vita pubblica epica.

Vorrei chiedere: signor Douglass, che cosa ha letto veramente prima di creare quel capolavoro retorico dell’abolizionismo, il discorso del 4 luglio 1852 che metteva in discussione il significato di “indipendenza” per gli schiavi d’America, o il discorso del Freedmen’s Memorial del 1876? Perché teneva una guida interpretativa della Bibbia quasi sempre sulla sua scrivania o accanto ad essa? Ci dica, signore, la profondità con cui ha letto il libro di Isaia, Robert Burns e il suo preferito, Shakespeare. Qual è stato il suo processo di scrittura quando è fuggito nella sua piccola capanna di pietra che ha chiamato la sua “growlery”, dietro la sua grande casa nel 1880? Come hai elaborato davvero, nel profondo, quella rabbia e quell’odio che sembravi sempre nutrire per gli schiavisti e i loro protettori? Cosa hai detto veramente ai tuoi due giovani figli, Lewis e Charles, quando li hai reclutati per andare a rischiare la vita per la libertà nell’esercito dell’Unione nel 1863? Com’era veramente in casa tua quando tutti i tuoi famosi amici letterati-intellettuali venivano a trovarti e tua moglie analfabeta lasciava la stanza? Cosa passò quando cinque dei suoi sei nipoti morirono così improvvisamente nel 1886-87, la maggior parte per febbre tifoidea? E come, signore, ha sostenuto la speranza negli anni 1880 e ’90 quando la gente di colore veniva terrorizzata con i linciaggi e i trionfi della sua vita erano così in pericolo mentre lei raggiungeva la fine del suo viaggio mortale?

Alas, non possiamo farlo. Ci rimane il dilemma che nella vita autobiografica di questo eroe che si è fatto da solo, la storia del diventare libero è migliore o più drammatica dell’essere libero.

Costruire l’arco narrativo della sua vita e la sua reputazione storica

Alla fine della terza autobiografia Douglass dichiara di aver “vissuto diverse vite in una: la prima, la vita da schiavo; la seconda, la vita da fuggitivo dalla schiavitù; la terza, la vita di libertà relativa; la quarta, la vita di conflitto e battaglia; la quinta, la vita della vittoria, se non completa, almeno assicurata”. Con la concentrazione di un memorialista sull’io, Douglass voleva dimostrare la lotta e la realizzazione nella sua vita. Egli ha sofferto e superato, ci viene detto. Ha perseverato attraverso la disperazione, ha guidato il suo popolo attraverso la prova del fuoco, e alla fine ha raggiunto almeno un trionfo personale. Queste sono le immagini di un uomo anziano che riassume la sua vita e cerca di controllare la sua reputazione storica.

Nelle categorie di Douglass, vediamo la sua immagine di sé come schiavo fuggitivo assurto a leader razziale e nazionale, la persona e la nazione rigenerata e redenta. Come tutti gli autobiografi di talento, Douglass stava cercando di ordinare, persino controllare, il passaggio del tempo e quindi dare un senso al proprio passato. Nel 1884, Douglass, quest’uomo che sembrava non smettere mai di sondare il suo passato per raccontare la sua storia, scrisse questa frase rivelatrice sulla memoria: “La memoria è stata data all’uomo per qualche saggio scopo. Il passato è… lo specchio in cui possiamo discernere i tenui contorni del futuro e con cui possiamo renderlo più simmetrico”. Oh, quanto lo desideriamo, ma quasi sempre incontriamo la sconfitta.

La cultura americana ha sempre avuto un fascino per l’autobiografia, specialmente al servizio dell’idea, o almeno del nostro bisogno di credere nell’idea, che possiamo ricrearci, che possiamo fare e rifare le nostre vite, che il nostro futuro non è completamente determinato. Quanto era preziosa questa fede per uno schiavo americano negli anni 1830 e 1840? In un passaggio di Bondage and Freedom, Douglass disse in modo così toccante:

“Il pensiero di essere una creatura del presente e del passato mi turbava, e desideravo avere un futuro, un futuro con la speranza. Essere rinchiuso interamente nel passato e nel presente è ripugnante per la mente umana; è per l’anima – la cui vita e felicità è un progresso incessante – ciò che la prigione è per il corpo”.

Come fonte di verità storica, naturalmente, l’autobiografia deve essere interpretata con cautela. Nessuna semplice cronologia può trasmettere i significati più profondi di una vita così movimentata. L’autobiografo Douglass resiste per molte ragioni, ma non da ultimo perché la sua scrittura rappresenta sia la brillante denuncia che l’audace speranza dello schiavo che ha rubato la lingua del padrone e si è reimmaginato nella poesia in prosa. Dovremmo leggere le autobiografie di Douglass non per la loro “accuratezza”, ma per le loro verità.

David Blight è insegnante, studioso e storico pubblico. Professore di storia americana alla Yale University e direttore del Gilder Lehrman Center for the Study of Slavery, Resistance and Abolition della scuola, è autore di molti libri tra cui American Oracle: The Civil War in the Civil Rights Era e la biografia Frederick Douglass, bestseller del New York Times: Prophet of Freedom. Si è occupato di Douglass per gran parte della sua vita professionale ed è stato insignito del Bancroft Prize, dell’Abraham Lincoln Prize e del Frederick Douglass Prize, tra gli altri.

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