C’è un interrogativo (1) o esclamativo (2) che si scrive con una tilde diacritica:
(1) Quale mano nascosta aveva ordito l’orribile congiura? .
(2) Che pensiero, Tula! .
Lo possiamo trovare anche preceduto da una preposizione:
(3) Cara, perché hai lasciato lo psicanalista? .
(4) E perché hai voluto l’ossigeno, se siamo in campagna? .
(5) Che modo difficile siamo arrivati a vivere insieme venticinque anni!
Questo accento appare anche nelle frasi interrogative indirette (6, 7) ed esclamative (8):
(6) E non sappiamo cosa vogliono.
(7) Si chiedeva cosa potesse barattare per ottenere in cambio un po’ della libertà che nessuno le offriva…
(8) Bisogna vedere che buon gusto ha questa ragazza…
Come le altre parole con valore interrogativo, ciò che può essere sostantificato anteponendogli un determinatore (9). Conserva quindi il suo accento ortografico. Come mostra l’esempio (10), alcune delle sequenze con una preposizione ammettono anche questo cambiamento di categoria:
(10) se per anima intendiamo ciò che c’è sempre stato senza che si sappia perché o per cosa.
La tilde negli esempi precedenti serve a differenziare gli usi interrogativi ed esclamativi davanti a due omografi atonici: la relativa che (11) e la congiunzione che (12):
(11) Non ti ho mai parlato di questi attacchi che ho subito da quando ero bambino.
(12) Decise che li avrebbe salutati non appena le circostanze fossero state più favorevoli per lui.
C’è un uso del que non sottolineato in cui molte persone inciampano quando scrivono: spesso appare a capo di un’affermazione interrogativa o esclamativa senza essere esso stesso l’uno o l’altro. Questo è quello che succede in (13) e (14):
(13) Hai lasciato le chiavi a casa?
(14) Il mio cibo sta bruciando!
È molto comune che una tilde sia infilata qui in modo inappropriato. Nel caso delle frasi interrogative, almeno, possiamo usare un trucco che può tirarci fuori dai guai. Se alla domanda si può rispondere con un sì o un no, allora il che in questione non ha una tilde:
(15) -Che hai lasciato le chiavi a casa?
A volte incontreremo coppie di frasi che, sebbene sintatticamente molto diverse, sono apparentemente le stesse e nelle quali la presenza o l’assenza di una tilde può portare a contrasti di significato:
(16) Non devo mangiare.
(17) Non devo mangiare.
La frase (16) significa ‘non ho cibo’, mentre (17) viene interpretata come ‘non devo mangiare’ o ‘non mi conviene’.
Il problema fondamentale di questa tilde diacritica è che per districarsi nell’accozzaglia di casi particolari è necessaria la conoscenza della grammatica per affinare al millimetro funzioni e categorie. Inoltre, abbiamo a che fare con funzioni e categorie in cui l’astratto e il complesso vanno di pari passo. Ognuno può avventurarsi nell’analisi grammaticale fin dove si sente sicuro, ma dove perdiamo l’appoggio, non abbiamo altra scelta che aggrapparci all’orecchio come un’ancora di salvezza. Le forme accentuate corrispondono a parole accentuate, mentre le controparti non accentuate sono non accentuate. Così, esempi come (13) e (14) dovrebbero essere facili da risolvere se ci rendiamo conto che si pronunciano come segue:
(18) ¿keteás dejádo lasllábes enkása?
(19) kesemekéma lakomída!
Confrontate quanto sopra con (20) e (21):
(20) ké teás dejádo? lasllábes?
(21) ké rríka está lakomída!
Analogamente, il contrasto di significato di (16) e (17) si risolve nella pronuncia come segue:
(22) nó téngo ké komér (‘Mi manca il cibo’)
(23) nó téngo kekomér (‘Non devo mangiare’)
In definitiva, non ho fatto altro che toccare di sfuggita i punti principali dell’uso di qué e que. Chiunque abbia la pazienza di studiare la lunga esposizione contenuta nell’Ortografía de la lengua española del 2010 ne sarà convinto. E dobbiamo ancora parlare di quién, cómo, cuál, (a)dónde, cuándo, cuanto e cuán.
La teoria va benissimo, ma non sostituisce la pratica. Fate qualche esercizio.
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