Nella battaglia di Farsalo, il 9 agosto 48 a.C., il generale romano Giulio Cesare sconfisse le truppe del Senato romano, comandate dal suo rivale Pompeo Magno. La vittoria di Cesare segnò la fine della repubblica romana.

Giulio Cesare

In questa pagina web, si può trovare una traduzione del racconto di Cesare stesso della battaglia decisiva; i capitoli 3.88-99 della Guerra Civile sono stati tradotti da W. A. McDevitte e W. S. Bohn. (Per un altro resoconto, vai qui.)

Introduzione

La guerra civile tra Giulio Cesare e il Senato era scoppiata all’inizio del 49, quando il conquistatore della Gallia, al quale il Senato non aveva permesso di candidarsi come console, attraversò il fiume Rubico. Il suo rivale Pompeo Magno decise di combattere per il Senato, ma fu presto costretto a ritirarsi dall’Italia verso est. Cesare ottenne alcuni successi in Spagna, dove sconfisse le truppe fedeli a Pompeo, tornò in Italia e nel gennaio 48 attraversò il mare Adriatico, dove sbarcò nell’odierna Albania con sette legioni. Tuttavia, la sua marina fu sconfitta e le restanti quattro legioni non poterono essere traghettate a est.

Pompeo il Grande

Pompeo e Cesare rimasero per un semestre a Dyrrhachium (moderna Dürres), dove costruirono grandi fortezze una di fronte all’altra. A marzo, il vice di Cesare, Marco Antonio, riuscì a rinforzarlo con le altre quattro legioni.

L’esercito unito, tuttavia, fu sconfitto (7 luglio), e Cesare aveva una sola opzione: marciare verso l’interno, attraversare le montagne del Pindo e sconfiggere l’esercito di Pompeo all’inseguimento da qualche parte in Grecia in un luogo più adatto. Questo alla fine avvenne a Farsalo, dove gli uomini più esperti di Cesare superarono l’esercito più grande di Pompeo (9 agosto). Quasi 6.000 soldati romani furono uccisi, e quando Cesare esaminò il campo di battaglia al tramonto e vide i corpi dei senatori morti, osservò: “Bene, l’avrebbero voluto così”. Questa fu la fine della repubblica romana e l’inizio dell’autocrazia di Cesare.

Mappa della battaglia di Farsalo

Alcuni credono che la battaglia ebbe luogo a nord-ovest di Farsalo, con le truppe di Cesare che attaccavano da est e gli uomini di Pompeo che fuggivano a ovest; altri credono che fu il contrario – la battaglia ebbe luogo a nord-est di Farsalo, Cesare attaccava da ovest, i soldati di Pompeo fuggivano a est. Il presente autore ha visitato entrambe le parti e ritiene che la seconda possibilità sia più probabile. La mappa è, quindi, basata sulla seconda teoria, ma se si preferisce la prima, basta capovolgerla.

Cesare sulla battaglia di Farsalo

Quando Cesare si avvicinò al campo di Pompeo, osservò che il suo esercito era disposto nel seguente modo: Sull’ala sinistra c’erano le due legioni, consegnate da Cesare all’inizio delle dispute in ottemperanza al decreto del Senato, una delle quali era chiamata la Prima, l’altra la Terza.nota Qui Pompeo comandava di persona.

Scipione con le legioni siriane comandava il centro. La legione cilicia insieme alle coorti spagnole erano disposte sull’ala destra. Queste erano considerate da Pompeo le sue truppe più stabili. Il resto era sparpagliato tra il centro e l’ala, e aveva 110 coorti complete; queste ammontavano a 45.000 uomini. Aveva inoltre due coorti di volontari, che avevano ricevuto favori da lui nelle guerre precedenti, e che ora accorrevano al suo stendardo: queste erano disperse in tutto il suo esercito. Le sette coorti rimanenti erano disposte a proteggere il suo campo e i forti vicini. La sua ala destra era assicurata da un fiume dalle rive scoscese; per questo motivo mise tutta la cavalleria, gli arcieri e i frombolieri sull’ala sinistra.

Mark Antony

Cesare, come sempre, aveva posto la decima legione a destra, la nona a sinistra, sebbene fosse molto indebolita dalle battaglie a Dyrrhachium. Collocò l’ottava legione così vicina alla nona da farne quasi una sola, e ordinò loro di sostenersi a vicenda. Fece scendere in campo ottanta coorti, per un totale di 22.000 uomini, e lasciò due coorti a guardia del campo. Diede il comando dell’ala sinistra a Marco Antonio, della destra a Silla e del centro a Gneo Domizio. Cesare stesso prese posto di fronte a Pompeo. Allo stesso tempo, temendo, a causa della disposizione del nemico che abbiamo precedentemente menzionato, che la sua ala destra potesse essere circondata dalla loro numerosa cavalleria, arruolò rapidamente una singola coorte da ciascuna delle legioni che componevano la terza linea, ne formò una quarta linea e la oppose alla cavalleria di Pompeo e, informandoli dei suoi desideri, li ammonì che il successo di quel giorno dipendeva dal loro coraggio. Allo stesso tempo ordinò alla terza linea e a tutto l’esercito di non caricare senza il suo comando: che avrebbe dato il segnale ogni volta che avesse voluto che lo facessero.

Mentre esortava il suo esercito alla battaglia, secondo l’usanza militare, e parlava loro dei favori che avevano costantemente ricevuto da lui, ebbe particolare cura di ricordare loro “che poteva chiamare i suoi soldati a testimoniare la serietà con cui aveva cercato la pace, che era sempre stato riluttante a versare il sangue dei suoi soldati, e non voleva privare la repubblica di uno o dell’altro dei suoi eserciti”. Dopo aver pronunciato questo discorso, diede con una tromba il segnale ai suoi soldati, che lo richiedevano con impazienza, ed erano molto impazienti per la partenza.

Nell’esercito di Cesare c’era un volontario di nome Crastino, che l’anno prima era stato primo centurione della decima legione, un uomo di grande coraggio. Quando fu dato il segnale, disse: “Seguitemi, miei vecchi compagni, e date prova di tutte le fatiche che avete deciso di fare per il vostro generale. Questa è la nostra ultima battaglia, e quando sarà vinta, lui recupererà la sua dignità e noi la nostra libertà.”

Al tempo stesso si voltò verso Cesare e disse: “Generale, oggi agirò in modo tale che tu mi sarai grato, vivo o morto.”

Dopo aver pronunciato queste parole caricò sull’ala destra, e circa 120 volontari scelti dello stesso secolo lo seguirono.

Tra le due linee era rimasto uno spazio sufficiente per l’attacco degli eserciti nemici, ma Pompeo aveva ordinato ai suoi soldati di aspettare l’attacco di Cesare e di non avanzare dalla loro posizione, né di lasciare che la loro linea fosse messa in disordine. Si dice che abbia fatto questo su consiglio di Gaio Triario, affinché l’impetuosità della carica dei soldati di Cesare potesse essere controllata e la loro linea spezzata, e che le truppe di Pompeo, rimanendo nelle loro file, potessero attaccarle mentre erano in disordine; e pensava che i giavellotti sarebbero caduti con meno forza se i soldati fossero rimasti sul loro terreno, piuttosto che se li avessero incontrati nel loro corso. Allo stesso tempo confidava che i soldati di Cesare, dopo aver percorso il doppio del terreno abituale, sarebbero diventati stanchi ed esausti per la fatica.

Ma a me sembra che Pompeo abbia agito senza una ragione sufficiente: perché c’è una certa impetuosità di spirito e un’alacrità impiantata dalla natura nel cuore di tutti gli uomini, che è infiammata dal desiderio di incontrare il nemico. Un generale non deve cercare di reprimerla, ma deve aumentarla. Né fu una vana istituzione dei nostri antenati che le trombe suonassero da tutte le parti e che si levasse un grido generale, con il quale immaginavano che il nemico sarebbe stato colpito dal terrore e il loro stesso esercito ispirato dal coraggio.

I nostri uomini, quando fu dato il segnale, si precipitarono in avanti con i giavellotti pronti per essere lanciati, ma vedendo che gli uomini di Pompeo non correvano alla carica, e avendo acquisito esperienza per abitudine e pratica nelle battaglie precedenti, di loro iniziativa frenarono la velocità e si fermarono quasi a metà strada, in modo da non raggiungere il nemico quando le loro forze erano esaurite. Dopo una breve tregua ripresero la rotta, lanciarono i giavellotti e sguainarono subito le spade, come Cesare aveva loro ordinato.

Né gli uomini di Pompeo fallirono in questa crisi, perché ricevettero i nostri giavellotti, resistettero alla nostra carica e mantennero i loro ranghi; e dopo aver lanciato i giavellotti, ricorsero alle loro spade. Allo stesso tempo la cavalleria di Pompeo, secondo gli ordini, si precipitò subito fuori dalla sua ala sinistra, e tutta la sua schiera di arcieri si riversò su di loro. La nostra cavalleria non resistette alla loro carica, ma cedette un po’ il passo, al che i cavalli di Pompeo li incalzarono più vigorosamente e cominciarono a schierarsi in truppe e ad affiancare il nostro esercito.

Quando Cesare se ne accorse, diede il segnale alla sua quarta linea, che aveva formato con sei coorti.Questi si precipitarono subito in avanti e caricarono il cavallo di Pompeo con una tale furia che non ne rimase in piedi nemmeno uno; ma tutti, girandosi, non solo abbandonarono il loro posto, ma galopparono in avanti per cercare un rifugio sulle montagne più alte. Con la loro ritirata gli arcieri e i frombolieri, lasciati inermi e senza difesa, furono tutti fatti a pezzi. Le coorti, proseguendo il loro successo, ruotarono sull’ala sinistra di Pompeo, mentre la sua fanteria continuava a combattere, e li attaccarono alle spalle.

Contemporaneamente Cesare ordinò di avanzare alla sua terza linea, che fino ad allora non era stata impegnata, ma aveva mantenuto la posizione. Così, essendo arrivate nuove e fresche truppe in aiuto di quelle affaticate, e avendo altre sferrato un attacco alle loro spalle, gli uomini di Pompeo non furono in grado di mantenere il loro terreno, ma fuggirono tutti. Cesare non si era sbagliato quando aveva dichiarato nel suo discorso ai suoi soldati che la vittoria avrebbe avuto inizio dalle sei coorti che aveva posto come quarta linea per opporsi al cavallo. Perché da loro la cavalleria fu sbaragliata; da loro gli arcieri e i frombolieri furono fatti a pezzi; da loro l’ala sinistra dell’esercito di Pompeo fu circondata e costretta a essere la prima a fuggire.

La piana di Farsalo

Quando Pompeo vide la sua cavalleria sbaragliata, si disperò, abbandonò il campo e si ritirò subito a cavallo nel suo campo. Chiamò i centurioni, che aveva messo a guardia della porta principale, a gran voce, affinché i soldati potessero sentire: “Assicurate il campo”, disse, “difendetelo con diligenza, se qualche pericolo lo minacciasse; io visiterò le altre porte e incoraggerò le guardie del campo”. Detto questo, si ritirò nella sua tenda in preda alla disperazione, ma aspettando con ansia il risultato.

Cesare, avendo costretto i pompeiani a fuggire nelle loro trincee e pensando che non dovesse concedere loro alcuna tregua per riprendersi dallo spavento, esortò i suoi soldati ad approfittare della benevolenza della fortuna e ad attaccare il campo. Sebbene fossero affaticati dal caldo intenso, perché la battaglia si era protratta fino a mezzogiorno, erano pronti a sopportare qualsiasi fatica e obbedirono allegramente al suo comando.

Il campo fu difeso con coraggio dalle coorti che erano state lasciate a guardia, ma con molto più spirito dai Traci e dagli ausiliari stranieri. Infatti i soldati che vi si erano rifugiati dal campo di battaglia, spaventati e sfiniti dalla fatica, dopo aver gettato via le armi e gli stendardi, pensavano più a fuggire che a difendere il campo. Né le truppe che erano appostate sui bastioni potevano resistere a lungo all’immenso numero dei nostri dardi. Svenendo sotto le ferite, abbandonarono il luogo e, sotto la guida dei loro centurioni e tribuni, fuggirono senza fermarsi verso le alte montagne che si univano al campo.

Nell’accampamento di Pompeo si potevano vedere pergole in cui erano state imbandite tavole, una grande quantità di piatti disposti, i pavimenti delle tende coperti di zolle fresche, le tende di Lucio Lentulo e di altri ombreggiate dall’edera, e molte altre cose che erano prove di un lusso eccessivo e di una fiducia nella vittoria, così che si poteva facilmente dedurre che non avevano alcuna apprensione per l’esito della giornata, mentre si abbandonavano a piaceri inutili, e tuttavia rimproveravano con il lusso l’esercito di Cesare, truppe angosciate e sofferenti, che erano sempre state prive delle necessità comuni.

Pompeo, non appena i nostri uomini ebbero forzato le trincee, montò a cavallo, si spogliò dell’abito da generale, uscì in fretta dal cancello posteriore del campo e galoppò a tutta velocità verso Larisa. Non si fermò nemmeno lì, ma con la stessa rapidità, raccogliendo alcune delle sue truppe volanti, e non fermandosi né di giorno né di notte, arrivò in riva al mare, accompagnato solo da trenta cavalli, e salì a bordo di un barcone di vettovaglie, lamentandosi spesso, come ci è stato detto, di essere stato così ingannato nelle sue aspettative, che era quasi convinto di essere stato tradito da coloro da cui si aspettava la vittoria, mentre iniziavano la battaglia.

Quando Cesare fu padrone del campo di Pompeo, esortò i suoi soldati a non essere troppo intenti al saccheggio e a perdere l’occasione di completare la loro conquista. Ottenuto il loro consenso, cominciò a tracciare delle linee intorno alla montagna. I pompeiani, diffidando della posizione, poiché non c’era acqua sulla montagna, la abbandonarono, e tutti cominciarono a ritirarsi verso Larisa. Cesare se ne accorse, divise le sue truppe, ordinò che una parte delle sue legioni rimanesse nel campo di Pompeo, ne rimandò una parte al proprio campo, e prendendo con sé quattro legioni, andò per una strada più breve a intercettare il nemico, Avendo marciato per 9 chilometri, Cesare richiamò il suo esercito.

Ma i pompeiani osservando questo, si posero su un monte, il cui piede era bagnato da un fiume. Cesare incoraggiò le sue truppe, anche se erano molto esauste, ad erigere opere e tagliare la comunicazione tra il fiume e la montagna, in modo che il nemico non potesse avere acqua durante la notte. Appena finito il nostro lavoro, mandarono degli ambasciatori per trattare una capitolazione. Alcuni senatori che avevano sposato quel partito fuggirono di notte.

All’alba, Cesare ordinò a tutti coloro che avevano preso posto sulla montagna di scendere dalle alture alla pianura e di ammassare le armi. Lo fecero senza rifiutarsi, e con le braccia tese si prostrarono a terra e con le lacrime implorarono la sua misericordia. Egli li confortò, li fece alzare e, dopo aver pronunciato alcune parole della sua clemenza per alleviare i loro timori, li graziò tutti e diede ordine ai suoi soldati di non far loro del male e di non sottrarre loro nulla. Dopo aver usato questa diligenza, ordinò alle legioni del suo campo di venirgli incontro, e a quelle che erano con lui di prendere il loro turno di riposo e tornare al campo. Lo stesso giorno andarono a Larisa

In quella battaglia non mancarono più di 200 privati, ma Cesare perse circa 30 centurioni, valorosi ufficiali. Anche Crastino, di cui si è fatto cenno prima, combattendo con grande coraggio, perse la vita per la ferita di una spada in bocca. Non era stato falso quello che aveva dichiarato quando marciava verso la battaglia: perché Cesare aveva la più alta opinione del suo comportamento in quella battaglia e lo riteneva altamente meritevole della sua approvazione.

Dell’esercito di Pompeo ne caddero circa 15.000, ma più di 24.000 furono fatti prigionieri, perché anche le coorti che erano di stanza nelle fortezze si arresero a Silla. Molti altri si rifugiarono negli stati vicini. Furono portati a Cesare 180 colori e nove aquile. Lucio Domizio, fuggendo dal campo verso le montagne, essendo le sue forze esaurite dalla fatica, fu ucciso dal cavallo.

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