HENOTHEISM , termine coniato dal greco henos (“uno”) e theos (“dio”), fu per qualche tempo usato da F. Max Müller in modo intercambiabile con kathenotheism, derivato dal greco kathʿhena (“uno per uno”). Fu Friedrich Schelling (1775-1854) ad usare per primo la parola henotheism nel suo studio della mitologia per indicare il “monoteismo relativo, rudimentale”, che supponeva fosse l’idea di Dio nella coscienza preistorica (Philosophie der Mythologie und der Offenbarung, 1842). F. Max Müller (1823-1900), nel suo tentativo di “tracciare l’origine e la prima crescita del pensiero umano”, impiegò la parola come termine tecnico della Religionswissenschaft per designare una forma peculiare di politeismo che a suo parere era caratteristica della descrizione degli dei nel Ṛgveda. Egli osservò che nei Veda – la più antica letteratura religiosa indiana – sebbene le divinità siano invocate con una varietà di nomi, come Agni (“fuoco”), Sūrya (“il sole”), Uṣas (“alba”), Maruts (“le tempeste”), Pṛthvī (“la terra”), Āp (“le acque”) e Nadī (“i fiumi”), che sono strettamente connessi con la natura, così come da nomi propri, come Varuṇa, Mitra, Indra, e Aditi, “alla mente del supplicante” ogni dio è “al momento una vera divinità, suprema e assoluta”, e non limitata dai poteri di nessun altro dio. Müller chiamò questa “credenza in singoli dei” enoteismo o kathenoteismo, “un culto di un dio dopo l’altro” (Müller, 1881, pp. 136-137). Nelle sue conferenze del 1882 egli notò che, al posto del termine kathenoteismo, il “termine più breve henotheism ha trovato un’accettazione più generale, in quanto trasmette più decisamente l’opposizione tra il monoteismo, il culto di un solo Dio, e l’henotheism, il culto di singoli dei” (Müller, 1896, pp. 146-147).

Müller distingueva questa pluralità vedica di dèi dall’idea di politeismo, che, come egli sottolineava, derivava principalmente dall’antichità greca e romana e designava “un certo sistema più o meno organizzato di dèi, diversi per potere e grado, e tutti subordinati a un Dio supremo, uno Zeus o Giove” (Müller, 1896, pp. 145-146).

In parte in opposizione alla tesi di Ernest Renan (1823-1892) che il monoteismo era una tendenza unica della razza semitica, Müller suggerì che una “fase enoteistica” era “una fase particolare della religione” che si trovava probabilmente ovunque prima del politeismo o del monoteismo (Müller, 1873, p. 142; cfr. Müller, 1881, p. 414). Egli affermò che una tale fase esisteva non solo in India, ma anche in Grecia, Italia, Germania e altrove (Müller, 1879, p. 275; cfr. Müller, 1896, p. 163). Müller sosteneva che questa fase enoteistica “tendeva a diventare una credenza in un solo Dio, che presiede agli altri dèi non più supremi – il politeismo; o una credenza in un solo dio, che esclude la possibilità stessa di altri dei – il monoteismo” (Müller, 1879, p. 362; cfr. Müller, 1896, p. 163). Confrontando il monoteismo e l’enoteismo, Müller fa la seguente osservazione: “C’è un tipo di unità che non esclude l’idea di pluralità”, cioè l’enoteismo, e “ce n’è un altro che esclude” l’idea di pluralità, cioè il monoteismo (Müller, 1881, p. 415).

L’associazione dell’enoteismo con l’idea di “monoteismo rudimentale”, tuttavia, non è mai completamente scomparsa dalla mente di alcuni studiosi di religione. Così, l’enoteismo è stato talvolta confuso con la monolatria, un termine meglio applicato alla religione dell’antico Israele prima che raggiungesse il monoteismo, quando l’esistenza di divinità diverse da Yahveh era ammessa ma il loro culto era strettamente proibito (vedi Es. 22:20). Friedrich Heiler (1961, p. 323) e altri hanno sottolineato, tuttavia, che la monolatria – l’adorazione esclusiva di un dio da parte di un certo gruppo sociale – differisce chiaramente dall’idea di enoteismo esposta da Müller.

L’idea di enoteismo di Müller ha una dimensione speculativa che si occupa di come una realtà divina si rivela agli uomini. Egli riconosce nei Veda un “irrompere” della consapevolezza “che tutte le divinità non sono che nomi diversi di una stessa divinità” e che “l’intuizione primitiva della divinità” – “la molla principale di tutta la religione successiva” – “non è né monoteista né politeista…. Dio è Dio” (Müller, 1881, pp. 136-137 e 414-415). Così, egli affermò che “l’unità del Divino” era alla base del modo di espressione enoteistico (Müller, 1896, p. 144). Dal suo studio dei Veda, Müller concluse che “impariamo una lezione – la lezione di come gli dei sono stati fatti e disfatti – di come l’Oltre o l’Infinito è stato chiamato con nomi diversi per avvicinarlo alla mente dell’uomo, per renderlo per un certo tempo comprensibile, finché, quando nome dopo nome si era dimostrato inutile, un Dio senza nome è stato sentito per rispondere meglio alle inquiete brame del cuore umano” (Müller, 1896, p. 163). Tuttavia, se si prescinde da queste affermazioni metafisiche, l’idea di enoteismo di Müller sembra essere un altro termine che designa una certa pluralità di dei, comportando una possibile confusione con termini come monoteismo, politeismo e monolatria.

L’idea di enoteismo proposta da Müller è duplice: (1) designa un certo stadio di sviluppo all’interno di una religione che precede il politeismo o il monoteismo, e (2) un unico, qualitativo “momento kairologico”, o aspetto, della stessa coscienza religiosa umana (cfr. Panikkar, p. 266). Heiler, per esempio, usa la parola enoteismo per il suo significato psicologico, equiparandola al “teismo soggettivo”, che a suo parere apre la strada al monoteismo oggettivo (Heiler, p. 460). L’intuizione religiosa primordiale che ha attirato l’attenzione di Müller può essere paragonata a uno dei due modi di pensare che Heidegger identifica, cioè al besinnliches Denken, o pensiero meditativo, in opposizione al rechnendes Denken, o pensiero calcolativo.

Bibliografia

Per informazioni generali sull’enoteismo vedi l’articolo di D. W. Holsten “Henotheismus,” in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, 3d ed., vol. 3 (Tübingen, 1959). Si veda l’articolo di Robert Mackintosh “Monolatry and Henotheism,” nell’Encyclopaedia of Religion and Ethics, a cura di James Hastings, vol. 8 (Edimburgo, 1915), per un eccellente resoconto della storia dell’enoteismo e della monolatria come termini tecnici. Raffaele Pettazzoni dà un conciso background storico per la parola henotheism quando discute il monoteismo primitivo nei suoi Essays on the History of Religions (Leiden, 1967); lì Pettazzoni valuta l’influenza di Schelling su F. Max Müller. Per gli scritti di Max Müller, vedi Chips from a German Workshop, vols. 1 e 2 (1867-1875; New York, 1895-1898). L’India di Müller: What Can It Teach Us? (Londra, 1896) contiene lezioni che egli tenne nel 1882 all’Università di Cambridge. La sua Introduction to the Science of Religion (Londra, 1873) include le “Lectures on the Science of Religion”. L’articolo di Müller “Henotheism, Polytheism, Monotheism, Atheism” si trova nelle sue Lectures on the Origin and Growth of Religion (New York, 1879). Selected Essays on Language, Mythology and Religion, vol. 2 (1881; New York, 1978), contiene molti dei saggi di Müller dal suo Chips from a German Workshop, tra cui “Lecture on the Vedas” e “Semitic Monotheism”. Per interpretazioni successive dell’enoteismo, si veda, per esempio, Hebrew Origins di Theophile J. Meek (1936; New York, 1960) e Erscheinungsformen und Wesen der Religion di Friedrich Heiler (Stuttgart, 1961). Sulla frase “momento kairologico”, vedi il capitolo di Raimon (var. Raimundo) Panikkar “Silence and the Word”, in Myth, Faith and Hermeneutics (New York, 1979). Una buona discussione dei modi di pensare contrastati di Martin Heidegger si trova nel suo Discorso sul pensiero (New York, 1966).

Michiko Yusa (1987 e 2005)

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