Dieci anni fa, Netflix era un’innocua società di DVD via posta, lo tsunami Marvel stava solo testando le acque con “Iron Man” e “Thor”, e l’impero di “Star Wars” apparteneva ancora a George Lucas, non alla Disney. L’unica celebrità a diventare presidente degli Stati Uniti era la star di “Bedtime for Bonzo” Ronald Reagan, Amazon era un posto dove si andava a comprare libri a buon mercato e non il più grande spendaccione al Sundance Film Festival, e “la nuvola” era qualcosa su cui galleggiava la casa in computer grafica di Carl Fredricksen piuttosto che il modo in cui la gente proiettava i film della Pixar.

Nel caso in cui queste descrizioni vi facciano sentire nostalgici, tenete presente che, a parte “Twilight”, i film di Hollywood erano per lo più fatti da e su uomini bianchi. Il pubblico ha trovato la sua voce nell’ultimo decennio, facendo sapere all’industria come si sentiva – e gli studios hanno ascoltato, o hanno iniziato a farlo almeno, quando le critiche di #OscarsSoWhite e #TimesUp hanno innescato un cambiamento sismico nell’industria. Potrebbero volerci altri 10 anni prima che l’impatto di quei movimenti si faccia sentire pienamente, mentre alcuni lettori si aspetteranno la parità in liste come queste, dove i critici cinematografici di Variety Owen Gleiberman e Peter Debruge identificano i migliori film dell’ultimo decennio.

Clicca qui per leggere la lista di Peter Debruge.

I 10 migliori film di Owen Gleiberman

1. “The Social Network” (2010)

È uno di quei film perfetti, come “Tutti gli uomini del presidente” o “Dazed and Confused” o “Sweet Smell of Success”, che puoi guardare ancora e ancora e ancora. Sfreccia, affascina, scintilla e risuona; ogni momento è agilmente divertente ed essenziale. Attingendo al racconto della creazione di Facebook, questo capolavoro di David Fincher/Aaron Sorkin tocca la storia interiore del nostro tempo: come il nuovo modo di connettersi agli altri tramite Internet è stato inventato da persone – come il geek visionario Mark Zuckerberg, interpretato con un brivido magnetico da Jesse Eisenberg – che avevano seri problemi di connessione in qualsiasi altro modo. Così hanno inventato un mondo nuovo e coraggioso sincronizzandolo con lo spirito del loro stesso distacco. “The Social Network” è tonificante e divertente, tragico ed esilarante, raccontato con il tipo di brio senza sforzo che ti fa credere nel potere dei film.

2. “La La Land” (2016)

Il film più gioioso del decennio, e la gioia non è una qualità che dovremmo dare per scontata (specialmente di questi tempi). Ma in grandi musical come “Singin’ in the Rain” o “Moulin Rouge!” o “The Umbrellas of Cherbourg”, la gioia è spesso il rovescio di una sorta di malinconia estatica, che ci permette di fare il punto su quanto possano essere belli (e fugaci) la vita e l’amore. E la nuova versione di Damien Chazelle di un musical hollywoodiano della vecchia scuola ha un nucleo di sublime tristezza che la fa sbocciare in una sinfonia dolceamara. La magia del film è presente nei suoi incantevoli numeri musicali (pensate a Jacques Demy messo in scena con l’entusiasmo di un giovane Spielberg), nella storia malinconica di due intrattenitori innamorati (Ryan Gosling ed Emma Stone) che si innamorano l’uno dell’altra ma non sembrano riuscire a mettere in moto la loro passione, e nella devozione di Chazelle alla meraviglia della vecchia Hollywood, che fa sentire ogni momento di “La La Land” come un altro giorno di sole.

3. “Mad Max: Fury Road” (2015)

Un film così veloce e furioso che, per quanto l’abbia amato la prima volta, nelle visioni successive ho sentito che stavo imparando a guardarlo, allenando il mio occhio a cogliere ogni salto radente e taglio di frazione di secondo. Non c’è mai stato un poeta dell’azione come George Miller, che ritorna alla grandezza dell’inferno su ruote di “Mad Max” e “Il guerriero della strada” per creare un film che costruisce sulla loro eccitazione nichilista, usando la velocità, ancora una volta, non solo per generare emozioni (anche se Dio sa che lo fa) ma per esprimere una visione dell’esistenza – di uomini e donne che sfrecciano nel vuoto, aggrappati per la vita, chiedendosi cosa oltre al potere della loro velocità li salverà. (In “Fury Road”, Miller crea uno spettacolo di demolizione-derby per il 21° secolo, mentre Max (Tom Hardy), un guscio smussato, fa strada alle donne guerriere (guidate da Charlize Theron) che ora guidano la lotta per la libertà quando la gomma colpisce la strada.

4. “Before Midnight” (2013)

“Marriage Story” è un grande dramma sul divorzio, ma il terzo e più potente dei film di Richard Linklater “Before” è qualcosa di ancora più nudo e coinvolgente: un viaggio attraverso il labirinto emotivo di una relazione che resiste anche se ha iniziato a sbandare. Dopo aver condiviso una notte lunatica di beatitudine discorsiva in “Before Sunrise”, poi una riunione che fa il punto sull’amore in cui non hanno creduto abbastanza in “Before Sunset”, Jesse (Ethan Hawke) e Céline (Julie Delpy) sono ora una coppia di veterani, con due bambine gemelle, una memoria arretrata, e un amore così marmorizzato di affetto e risentimento che possono vedersi completamente… e, in un altro modo, per niente. Il dialogo di Linklater funziona al livello di Bergman e Rohmer e “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, e gli attori trasformano la loro discesa dal tramonto a mezzanotte in qualcosa di miracolosamente spontaneo. Sono solo due persone in una stanza, il loro amore tremolante come una candela che potrebbe spegnersi o meno.

5. “Hell or High Water” (2016)

Sheer genre-movie heaven. Parla di due fratelli, uno nobile (Chris Pine) e uno non buono (Ben Foster), e parla anche di furti, gioco d’azzardo, razzismo, il destino spinoso della famiglia e la mistica ostinata del Texas occidentale, incarnata da un vecchio Texas Ranger (Jeff Bridges) che potrebbe essere il più delizioso risolutore di crimini dai tempi di Colombo. L’effetto finale è quello di un classico film noir raccontato alla luce del sole, con un pugno di umanità che vi lascerà senza fiato.

6. “Bridesmaids” (2011)

Vera confessione: Non rido di gusto a molte commedie sullo schermo, perché mi sembra sempre di aver già visto le battute. Ma non importa quante volte guardo questa storia di amicizia nell’era della rivalità passivo-aggressiva e dello squilibrio di classe alla rovescia, rido in modo incontrollabile. Questo perché Kristen Wiig, che ha co-scritto la sceneggiatura e interpreta Annie, una damigella d’onore il cui imminente matrimonio di lusso di una vecchia amica sembra essere messo in scena come una cospirazione per farla sentire un fallimento, ha creato una commedia sullo schermo di un perdente nevrotico tanto masochisticamente divertente quanto elementare e romantica. Non è il primo film a dimostrare che le donne possono giocare al gioco della commedia volgare, ma è uno dei soli film a trasformare la volgarità in arte screwball.

7. “Amour” (2012)

Nella maggior parte dei suoi film, il regista austriaco Michael Haneke usa il suo imperioso voyeurismo algido per fare giochi divertenti con il pubblico. Ma in questo sconcertante racconto di una coppia di ottuagenari parigini, interpretati dai leggendari Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant, Haneke prende il suo stile da brivido – i silenzi indagatori, la macchina da presa imbambolata, la suspense costruita sulla paura di ciò che verrà dopo – per raccontare i misteri della vecchiaia con una corrente alternata di orrore e dolore. Dopo che il personaggio di Riva subisce un ictus, lei è sia lì che non lì, e ciò che si sviluppa suggerisce una commedia onirica di Stanley Kubrick su come l’amore trovi la sua massima espressione nella morte. È un film che vi toglierà il fiato in empatia.

8. “The Tree of Life” (2011)

Dopo un anno sabbatico dal cinema, Terrence Malick è tornato con “La sottile linea rossa”. Ma è in “The Tree of Life”, un magnifico racconto di crescita in una piccola città del Texas negli anni ’50, che Malick ha finalmente realizzato un dramma all’altezza dell’incandescenza oscura dei suoi due favolosi film degli anni ’70. La straordinaria sequenza della creazione dell’universo – pensate al Libro della Genesi che incontra “2001”, il tutto in 17 minuti – pone le basi per quella che è, in sostanza, una visione trascendente dell’esperienza quotidiana. La macchina da presa di Malick accarezza ogni momento, trasformando la vita negli anni ’50 in un diorama di pregnanza proustiana, e le interpretazioni di Brad Pitt (nel ruolo del padre severamente esigente) e Jessica Chastain (nella parte della madre la cui tenerezza rende la sua rabbia sopportabile) hanno l’effetto indelebile di scatenare sentimenti primari sui nostri stessi genitori quando erano abbastanza giovani da perseguitarci nella loro innocenza imperfetta.

9. “Mission: Impossible – Protocollo Fantasma” (2011)

Quando Tom Cruise, indossando guanti elettronici a ventosa, striscia come un ragno sulla torreggiante superficie di vetro del Burj Khalifa a Dubai (e non fraintendete, è davvero lassù, sull’edificio più alto del mondo), è come uno degli uomini comuni di Hitchcock in circostanze straordinarie; come un supereroe dei fumetti i cui poteri sono di questa terra; come una star del cinema che fa l’esatto opposto di fare il suo mestiere – sta vivendo il mestiere, trasformandolo nella misura della sua celebrità. Quella sequenza vertiginosa è un classico istantaneo, ma il regista Brad Bird, nella sua geniale avventura di “M:I”, non si adagia sugli allori dei suoi set. Sostiene l’eccitazione di un caper costruito intorno ad una serie di grandi illusioni che (come il lavoro di Cruise) potrebbero essere reali. Il risultato è il blockbuster più esilarante della sua epoca.

10. “Lady Bird” (2017)

Alcuni spettatori che non si sono agganciati allo splendore del dramma di Greta Gerwig su una liceale di Sacramento che attraversa il suo irto ultimo anno hanno detto cose come: “È un buon film di coming-of-age. Ma non l’abbiamo già visto?”. Sì, ma non l’abbiamo visto fatto così: come una serie di istantanee di memoria squisitamente messe in scena, che saltano tutte in avanti per creare un insieme sublimemente più grande della somma delle sue parti. Christine, alias Lady Bird, interpretata da Saoirse Ronan con un carisma volubile che è in parti uguali amore, confusione e ferocia, passa da un ragazzo all’altro, si scontra con la lealtà che definisce l’amicizia, e conduce una guerra santa contro sua madre (Laurie Metcalf) sulla questione se lascerà il nido della California quando andrà al college. Quello che sta veramente scoprendo, però, in un film che risulta essere tanto religioso quanto pungente, esuberante e commovente, è la gloria della vita stessa.

I 10 migliori film di Peter Debruge

1. “The Tree of Life” (2011)

Artisti del cinema come Carl Theodor Dreyer e Ingmar Bergman hanno esaminato questioni di spiritualità e coscienza spogliando le loro opere dell’eccesso di stile. Terrence Malick fa il contrario, infondendo questo penetrante atto di auto-esame con una tecnica che attira l’attenzione, mentre il regista cerca di conciliare la morte di suo fratello con la sua comprensione di un potere superiore. Data la natura intensamente personale del film, capisco perché molti spettatori l’hanno trovato impegnativo, frustrante e imperscrutabile in molti dei suoi dettagli (come le scene dei dinosauri). Eppure, nel mettere a nudo le preoccupazioni della sua anima, l’autore esistenzialista ci invita ad esplorare il più universale dei temi: la fede, la famiglia e la perdita. In retrospettiva, suppongo che Malick avrebbe potuto inserire una sequenza cosmica sull’origine della vita in uno qualsiasi dei suoi film per aggiungere spessore metafisico, ma questo è stato quello in cui è stato abbastanza coraggioso da farlo – e i film sul significato della vita non saranno più gli stessi.

2. “Secret Sunshine” (2010)

Il regista coreano Lee Chang-dong ha fatto breccia nel pubblico americano l’anno scorso con “Burning”, ma il suo vero capolavoro è questo film del 2007 – uscito negli Stati Uniti solo nel 2010, il che spiega la sua inclusione in questa lista. Vincitrice del premio come miglior attrice al festival di Cannes, Joen Do-yeon offre la performance del decennio nei panni di una vedova colpita da molteplici tragedie. All’inizio, trova conforto nella religione, arrivando persino a visitare il rapitore di suo figlio in prigione, ma quando lui rifiuta il suo perdono, lei scatta di nuovo, respingendo la sua nuova fede. Per qualche motivo, i film evitano il tema della religione, che gioca un ruolo centrale nella vita di molti. Nessun film del 21° secolo offre un esame più complesso di questa lotta personale di questo epico viaggio dell’anima.

3. “Amour” (2012)

Un modello di moderazione, il maestro austriaco Michael Haneke si fida così tanto del suo pubblico da presentare uno straziante dilemma umano con un’interferenza stilistica minima: nessun movimento di macchina, nessuna musica melodrammatica per suscitare simpatia o manipolare emozioni. Piuttosto, “Amour” si basa sulla forza della sua situazione centrale – un marito devoto (Jean-Louis Trintignant) decide come meglio assistere la moglie invalida (Emmanuelle Riva) nel porre fine alla sua vita, mentre la loro figlia adulta (Isabelle Huppert) sostiene egoisticamente di prolungare la sua sofferenza – e le interpretazioni sfumate di tre dei più forti attori francesi, costringendoci a riempire i vuoti con dettagli della nostra esperienza personale. Non tutti sono pronti per un film che non ti dice cosa pensare o sentire, ma pochi capiscono il potere dell’ambiguità meglio di Haneke, il cui approccio ha ispirato altri, tra cui “Toni Erdmann”, “Force Majeure” e “Roma”. “Io sono l’amore” (2010)

Superato nella nativa Italia di Luca Guadagnino, questa sontuosa e sovversiva storia d’amore – su una moglie immigrata (Tilda Swinton) in una famiglia di lusso che cede a una relazione con il migliore amico di suo figlio – stimola tutti i nostri sensi senza ricorrere all’uso di espedienti come 4DX e D-Box che strozzano la tua sedia e ti spruzzano profumo in faccia. Come il pubblico avrebbe poi sperimentato con “Chiamami col tuo nome”, Guadagnino manipola la vista e il suono – i due strumenti a sua disposizione – per espandere in modo vibrante la nostra esperienza, così che possiamo praticamente assaggiare la cucina, sentire le loro carezze e annusare i campi in cui fanno l’amore. Nel frattempo, la politica radicale del film va contro i valori della cultura occidentale, che è scandalizzata dall’idea che una madre possa abbandonare la sua famiglia per seguire il suo cuore, mentre il personaggio della Swinton sceglie la passione sul patriarcato, anche se a un enorme costo emotivo.

5. “The Rider” (2018)

Questa è la cosa più vicina a un film Marvel che troverete nella mia lista – solo perché questo poetico indie di interesse umano ha convinto lo studio di supereroi ad assumere il suo regista, Chloe Zhao, per dirigere il suo prossimo “The Eternals”. Piuttosto che vendere fantasie, “The Rider” affronta la fragilità della vita e le limitazioni del sogno americano quando un bel giovane cowboy da rodeo nella riserva indiana Pine Ridge rifiuta di accettare che una lesione cerebrale quasi fatale significa che non dovrebbe mai più salire su un cavallo. La storia quasi vera è stata ispirata dal protagonista di Zhao, Brady Jandreau, che interpreta una versione testarda di se stesso – una pratica che sta diventando sempre più comune man mano che le tecniche documentaristiche si fondono con il cinema di fiction in questo decennio. (Vedi anche “Stories We Tell” di Sarah Polley, un secondo posto in questa lista, per un’ulteriore innovazione su quel fronte.)

6. “Son of Saul” (2015)

Nell’ultimo decennio, una parola preoccupante si è infiltrata nella conversazione sui film, specialmente su Twitter: “problematico”. Il più delle volte, l’eufemismo è all’altezza del suo nome, nel senso che viene usato per criticare le opere d’arte senza specificare effettivamente ciò che si trova discutibile in esse. Cito qui la tendenza perché il regista ungherese László Nemes si è avvicinato al suo primo lungometraggio rendendosi perfettamente conto che stava entrando in un campo minato. Quando si tratta di rappresentazioni dell’Olocausto, il regista di “Shoah” Claude Lanzmann è stato abbastanza chiaro su quello che considera il problema, sostenendo che nessuna ricostruzione può rendere giustizia alle atrocità sottostanti. Personalmente, penso un mondo di “Schindler’s List” di Steven Spielberg (che Lanzmann ha definito “melodramma kitsch”), ma sono rimasto ugualmente colpito dall’iper-intellettuale work-around di Nemes, in cui esamina la coscienza torturata di un Sonderkommando ebreo ad Auschwitz senza sfruttare la tragedia o travisare la storia attraverso un finale di buon umore.

7. “Inside Llewyn Davis” (2013)

Il miglior film dei fratelli Coen dai tempi di “Fargo” non è esattamente un piacere per il pubblico: Llewyn Davis (un ruolo da star per Oscar Isaac) è uno stronzo pungente ed egocentrico, più preoccupato della sua scalcinata carriera di musicista folk che dei sentimenti di chi lo circonda. Eppure, è questa qualità dura da amare che rende il film così profondo. Anche se i Coen non dicono mai cosa “cercano di dire” con un film, c’è una lezione di vita vitale sepolta nel loro omaggio meticolosamente realizzato alla scena folk del Greenwich Village dei primi anni ’60: Ci vuole una certa quantità di narcisismo per una persona creativamente incline a chiudere fuori tutte le distrazioni e creare arte, il che potrebbe essere giustificabile per qualcuno dotato come Bob Dylan, ma per un cantante meno talentuoso/sfortunato come Davis (modellato su Dave Van Ronk), ad un certo punto, deve crescere e impegnarsi con le sue responsabilità nel mondo reale.

8. “Beasts of the Southern Wild” (2012)

Un’estatica opera d’arte popolare americana inquadrata attraverso gli occhi di un bambino selvaggio con i capelli a spazzola di nome Hushpuppy, il debutto alla regia di Benh Zeitlin mescola uno stile indie grezzo con un’ambizione mitica (attraverso le sue ure metaforiche), distinguendosi da solo nel panorama cinematografico americano degli ultimi tempi nella sua rappresentazione di chi si sente escluso dai media, dalla politica e dal discorso pubblico. Sviluppando il progetto con attori non professionisti e con i residenti della comunità rurale del bayou in cui hanno girato, Zeitlin e la co-sceneggiatrice Lucy Alibar hanno rivolto la nostra attenzione a un’enclave (immaginaria) fuori dalla rete, minacciata dall’influenza dell’industria e del mondo esterno. Otto anni dopo, stiamo ancora aspettando il secondo film di Zeitlin, anche se posso facilmente ricordare la mia eccitazione iniziale, dall’esplosione iniziale della sua estasiante partitura d’archi, nell’essere immerso in questo microcosmo sconosciuto ed essere trascinato per il viaggio.

9. “12 anni schiavo” (2013)

Nella sua storia, il cinema è stato uno strumento incredibile per esporre le ingiustizie, ma l’America – e Hollywood in particolare – è stata lenta ad affrontare la più grande vergogna del paese: la schiavitù. In questo successo popolare in stile d’essai, il regista britannico Steve McQueen offre un resoconto senza mezzi termini di quell’esperienza attraverso gli occhi di un uomo nero, Solomon Northup, nato libero ma ingannato e venduto a un crudele proprietario di piantagioni del Sud. Fortunatamente, Northrup visse per condividere la sua storia con altri, il che è fondamentale: Fantasie revisioniste come “Django Unchained” di Tarantino possono essere catartiche, ma riconosciamo che sono in gran parte inventate, mentre il film di McQueen è basato sui fatti e ricostruito con dettagli strazianti e reali. Ci sarà sicuramente qualcuno che leggerà questa lista, contando il numero di registi donna o di minoranza che ho scelto, e a loro dico: Mentre l’industria abbraccia una maggiore diversità dietro la macchina da presa, aspettatevi più trattamenti di riferimento di soggetti sottorappresentati nei decenni a venire.

10. “Waves” (2019)

I cinefili sono stati lenti a scoprire l’elettrico ritratto di una famiglia americana dell’alta borghesia di Trey Edward Shults – forse non lo faranno mai, anche se prevedo che “Waves” alla fine troverà il suo pubblico. Con la sua narrazione divisa e lo stile ultra-saturo e coinvolgente, il film ha attirato i paragoni con “Moonlight” di Barry Jenkins (che ha mancato di poco il taglio): Entrambi i film sono ambientati nel sud della Florida, entrambi si concentrano sull’esperienza afroamericana, anche se alle diverse estremità dello spettro economico. Ciò che mi ha stupito di “Waves” è quanto vividamente Shults cattura i dettagli di ciò che significa essere vivi in questo preciso momento nel tempo. La telecamera inquieta e dinamica e le scelte musicali pulsanti mostrano un linguaggio cinematografico che si evolve per riflettere la mentalità dei Millennial. “Waves” affronta le pressioni esercitate sui giovani dai social media, la tossicità del narcisismo e, di fronte alla tragedia, il potere trascendente della buona, vecchia connessione umana.

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